Perché dobbiamo parlare di accesso alla terra?
Quando vide che l’uomo allungava le dita /
a rubargli il mistero d’una mela proibita /
per paura che ormai non avesse padroni /
lo fermò con la morte, inventò le stagioni.
Il settore primario non è escluso dal progressivo aumento delle diseguaglianze a livello globale. In Europa, circa il 3% delle aziende agricole gestisce più della metà dei terreni totali. Non solo; sempre stando ai dati raccolti da Eurostat (Farm Structure Survey, 2013), la dimensione media delle aziende agricole è aumentata del 40% tra il 2003 ed il 2013, disvelando la tendenza ad una progressiva concentrazione della proprietà terriera.
Questa condizione si ripercuote su scala nazionale e locale costringendo moltissimə piccolə agricoltori e agricoltrici, spesso legatə a contesti rurali e contadini, ad abbandonare il mercato, con le loro terre fagocitate delle aziende più grandi e competitive.
L’attuale assetto del mercato, impone infatti prezzi proibitivi per le terre e, data la domanda esorbitante caratteristica di un sistema globalizzato, fa crollare i prezzi dei prodotti agricoli. Avviare un’attività agricola richiede quindi ingenti investimenti, finendo per escludere le produttrici e i produttori più piccolə e quellə non allineatə al redditizio settore dell’agroindustria.
La concentrazione della proprietà, e quindi la limitazione dell’accesso alla terra, sono due facce di uno spiacevole incomodo che ci coinvolge per svariate ragioni.
Mentre il settore agrosilvopastorale soffre da anni di una forte crisi demografica, dovuta alla quasi totale assenza di ricambio generazionale, le persone più giovani, ovvero una componente sociale fondamentale per l’innovazione e la riproduzione del settore, hanno sempre meno possibilità di avviare un’attività agricola. Questo fatto è confermato, in Italia, anche dall’aumento della superficie forestale nelle aree marginali in abbandono che ricolonizza i terreni un tempo destinati all’attività contadina.
Affinché le imprese agricole, zootecniche e selvicolturali siano sufficientemente redditizie da garantirne la sopravvivenza economica, sono dunque necessarie ingenti quantità di terra, una strutturazione aziendalistica volta esclusivamente al profitto e l’adozione di modelli produttivi agroindustriali deleteri per ecosistemi già di per sé fragili.
Mentre per moltə contadinə le severe condizioni imposte dal mercato capitalista costituiscono un forte ostacolo economico, le più grandi aziende agro-zootecniche hanno modo di accaparrarsi terreni lasciati liberi, di assumere manodopera a basso costo (spesso sfruttata attraverso il lavoro grigio e il caporalato) e di automatizzare la produzione.
Infine, salvo sporadici casi, né la vocazione sociale, né l’adozione di pratiche innovative e sostenibili come l’agroecologia sono sufficientemente valorizzate dalle politiche agricole nazionali e sovranazionali, rimanendo spesso costrette in ambiti di nicchia. Proprio per questo, chi tenta di percorrere questa via è strutturalmente impossibilitatə a farsi vera alternativa al modello produttivo agroindustriale. Basti pensare che, ancora oggi, il 70% dei fondi UE della PAC è destinato oggi ai pagamenti diretti a superficie del primo pilastro, senza obiettivi concreti e misurabili, pertanto chi possiede grandi estensioni di terra riceve più contributi (Atlante della PAC, 2019). Essi vengono destinati senza tener conto delle pratiche agricole adottate, delle condizioni dei lavoratori e, in generale, delle esternalità prodotte.
Nel frattempo sono in corso i negoziati per la nuova PAC. Come parte della riforma, i fondi dovrebbero essere reindirizzati per dare la priorità alle piccole e medie aziende agricole, così come alle persone più giovani e nuove al mondo agricolo, attraverso un massimale e una ridistribuzione dei pagamenti.
Nell’UE, nonostante la diminuzione del numero di aziende agricole e la crescente concentrazione di terreni nelle mani di pochi, l’agricoltura rimane prevalentemente di piccola scala. Queste piccole fattorie, e le persone che ci lavorano, sono la chiave per le fondamenta stesse di tutta l’agricoltura: i sistemi sementieri contadini, il lavoro e la conservazione della terra in modo che sia fertile e diversificata e la trasmissione delle conoscenze che hanno alimentato con successo la popolazione per migliaia di anni. Un sistema alimentare sostenibile – che possa garantire cibo sano per tutta la popolazione, rinvigorire le zone rurali e conservare la diversità territoriale, biologica e culturale – ha quindi bisogno di più contadini.
La campagna Accesso alla Terra si prefigge dunque di esplorare con spirito critico le ragioni che hanno portato a questi allarmanti squilibri di potere, al fine di porre le basi necessarie per stimolare i processi volti ad una progressiva riappropriazione della Terra. Tutto ciò con la consapevolezza di doversi scontrare con un sistema radicato e dotato di una stupefacente forza economica e politica.
Mettiamo in rete i nostri saperi dedicandoci all’autoformazione e costruendo un network d’ispirazione micorrizica, solido e solidale, per far fronte alle sfide di un mondo che cambia assumendo i tratti di un sistema insostenibile e discriminante.
Ci dotiamo di competenze solide e strumenti innovativi, dando credito alle capacità delle piccole comunità agricole (e non) di autogestirsi e confederarsi, superando il bisogno di sfruttamento e la sete di profitto.
Monitoriamo la situazione del territorio vicentino indossando le vesti di sentinelle pronte a dare l’allarme e a riferire alla popolazione dove poggiare lo sguardo.
Dal primo momento ci siamo concentratə sul caso emblematico della Cascina e delle terre pubbliche in località Carpaneda nel comune di Vicenza. Per approfondire il tema rimandiamo al relativo documento.